domenica 24 febbraio 2008

Freddo zero gradi

 

 

Il freddo zero gradi invade ogni spazio, ingravidandolo di brividi.

Esco da casa ed è lì fuori che aspetta.

Sembra quasi avere una personalità e un carattere caldo, per controbilanciare le sue emanazioni gelide.

I miei occhi lacrimano col freddo, una specie di pianto protettivo.  Il viso pallido e le mani violacee sbucano da sciarpa e cappotto marrone spinato.

In mano le chiavi dell’auto che faticano a centrare la serratura, ubriache e rigide d’inverno.

Non porto il cappello perché altrimenti mi rovinerebbe i ricci messi a tacere dal gel.

Sì, perché sono ribelli e dispettosi; e allora, giusto per insegnar loro la disciplina, li incollo con quella gelatina trasparente e appiccicosa: “ qui comando io, sono io il padrone!”.

La mia casa è il mio corpo, sopra cui loro sono ospitati.

Per alcuni anni li ho portati lunghi; anzi luuunghi, luunghissssimi. M’arrivavano fino a oltre metà schiena da bagnati; da asciutti, meno; molle retrattili che si tirano e ritirano, boccoli di spago nero sottile arrotolato su di sé.

Un tempo, l’altra volta che li avevo tenuti lunghi- da diciottenne ribelle con l’urlo sulla pelle, l’ormone scatenato, il pugno alzato, il cannolo arrotolato pendente dalle labbra, le endovenose in agguato nelle piazze, il canto no future nelle orecchie, le birre per ruttare sul mondo bastardo- avevo dei boccoloni che mi si adagiavano sulle spalle per poi cadere giù in picchiata lungo schiena o petto; avevo provato per curiosità ad aprire quel grumo compatto simile ad una frusta; ebbene, dentro, un fitto strato colloso con animali e insetti di ogni genere: sembrava un ambiente boscoso, una riserva selvatica.

 

E proprio oggi, in questo zero centigrado, punto d’equilibrio tra il più e il meno, ho svuotato lo zaino che di solito adopero e ho messo tutte le mie cose dentro la borsa di cuoio che usavo proprio in quegli anni caldi di sangue fertile e rabbia ingenua.

Al suo interno, tante firme.

Soprattutto di ragazze, amiche e fidanzate dell’epoca.

Uno sforzo lieve per ricordare.

Ricordo quasi tutte e tutti; l’aspetto, l’eloquio, il ruolo all’interno del gruppo.

Erano tempi capelloni, e si parlava, spesso, di cosa fare, dove andare, come affrontare quel presente dal sapore di nulla. Col lusso di chi ha così tanto tempo da concedersi la noia.

Ricordo in particolare una di loro; i suoi baci caldi, lenti, senza fretta: perché dove si dovrebbe andare visto che stiam facendo la miglior cosa possibile al mondo?

E una saggezza che nemmeno mi sfiorava; sta lontano da quella roba, da quella gente; vieni qui tra le mie braccia, dentro la mia bocca, a cuccia tra i seni, tra le mie gambe umide; vieni dentro che ti scaldo e proteggo io, corazza d’amore.

E poi stringimi, che ci nascondiamo; che se ci trovano, troveranno due persone in una: forti ben più del doppio di ognuno di noi, e voi, che non capite e che mai capirete la verità di questo dolce bisogno.

E ricordo di averla perduta perché non sapevo ascoltare altro che le urgenze della mia età. 

E c’era anche un ragazzo là in mezzo che se n’è andato, da solo, dentro un’auto, in un posto isolato, con il cuore fermo, la pelle bianca, le labbra e le unghie blu, freddo come il gelo delle domande che scaldava con le risposte sbagliate. L’han trovato dopo una telefonata anonima: c’era qualcuno con lui, ma niente nomi; solo rimpianto e rammarico e un segreto che gli peserà per sempre, credo. Come quando la vigliaccheria sfiora il buon senso

E poi ce n’è un’altra che stava assieme ad un ragazzo che usava la polvere maledetta anch’egli.

E girava con un’insulina in borsa, pronta ad immolarsi per lui; disposta a capire quei perché– ce ne sarà stato almeno uno-  ch’egli non sapeva tradurre in parole, ma solo in fatti brutali che poi pagava e pativa col tremore e la tristezza dello sconfitto.

E poi gli altri, che erano dentro la borsa, ma solo da comparse, poi scomparse.

E in questa mattina zero gradi centigradi, con queste chiavi in mano che faticano ad entrare nella serratura intasata di freddo, circondato da questo profumo che non puzza ancora, soltanto, del fetore di città, apro la portiera ed entro.

 

Mi stendo sullo schienale dopo aver appoggiato la borsa.

La guardo, aspettando che s’esprima.

Voci invadono l’abitacolo.

Escono da figure che scaturiscono da firme.

Mi guardano.

Io le guardo.

Ci sorridiamo con facce d’epoca, chissefrega dei vent’anni e più che son passati.

E come va?

Va bene; va meglio soprattutto da quando mi faccio le domande giuste e non agisco solo risposte rabbiose.

Sì, ci sono ancora i colori nelle fantasie, e ci sono tante più verità e molte meno bugie.

E tutto è più delicato e facile.

E quel tipo di paura viva è sparita, lasciando il posto a inutili timori adulti, e alibi circostanziati.

Anche se ormai non ho più tempo .

Anche se però mi mancate.

E questa mia faccia – e mentre lo dico chiedo conferma allo specchietto retrovisore- è ancora giovane e tutto sommato bella.

Poi allungo una mano e accarezzo quei visi, che sorridono al tocco.

E guardo lei.

Avevi ragione, già da allora, ma dovevo toccare quello schifo con queste mie mani e sporcarle.

E poi guardo lui; non dico niente.

Qualsiasi parola sarebbe troppo e troppo poco.

E sorrido commosso.

E lo abbraccio e stringo fraterno.

E tutti gli altri, vestiti sgraziati come allora, li saluto con la mano.

In macchina il riscaldamento sta facendo energicamente il suo dovere.

Guardo l’ora.

Li guardo con lo sguardo gentile e chiedo loro di tornarsene in borsa.

È tardi e devo andare.

Anche se non è mai troppo tardi.

Anche se ci hanno sempre detto e inculcato il contrario.

Non è mai troppo tardi.

E ad ogni fine coincide un nuovo inizio.

Fuori è zero gradi.

Dentro si sta bene.

Vado.

 

 

sabato 16 febbraio 2008


Davanti al mare

 

 

Davanti al mare, estate, tardo pomeriggio.

Stai in piedi, guardi e ascolti.

Guardi e vedi l’acqua, madre primordiale, fluida necessità.

Guardi e vedi l’orizzonte che unisce in una sottile linea gli elementi che apparentemente sembrano separati.

Senti sulla pelle la forza del calore del sole, pallone giallo infuocato che dà luce.

Odori la salsedine che accarezza l’olfatto e scende in gola solleticando il gusto.

E senti l’arrivo e il ritorno dell’acqua che si fa schiuma e torna subito liquida.

Sembra tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo.

Stai così un minuto, cinque, dieci.

Poi decidi di sederti.

Rilassi le spalle, che ti accorgi essere tese.

Siedi comodo, sciogliendo il più possibile i muscoli che sono tesi tesi, tirati come fili dell’alta tensione.

Seduto così, t’accorgi di non esserti messo comodo prima perché pensavi agli altri; a cosa avrebbero potuto pensare di te.

Di quest’uomo-ragazzo che viene in spiaggia con la figlia e che legge, sta spesso in silenzio, in disparte, ha un’aria autunnale e non socializza come gli altri.

Che ha perduto persone importanti che non vivono più.

“che stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?” ti sembra di sentire le parole dei loro pensieri.

“sto nullando, sto nientendo”, risponderesti loro.

“e dovreste provarci, qualche volta”, aggiungeresti.

E diresti: “sapeste quanto è ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente eppure mesta, disinteressata all’esibizione, disinteressata all’ambizione”; lo diresti, se avessi voglia di parlare a quegli sguardi nascosti dietro l’indifferenza da professionisti.

E invece taci.

E ristori la mente, quieti i pensieri, smussi gli angoli, tradisci la fretta, aborrisci l’inutilità, sposi e baci e lecchi l’essenza.


Lo sguardo e l’udito seguono il ritmo regolare delle piccole onde che arrivano alla carica per poi ritirarsi subito.

Vengono e vanno; arrivano e partono; giungono e lasciano.

Onde discrete, leggere che s’arricciano sulla sabbia.

Quando vai a fare il bagno, nuoti per sfiancarti e raggiunto il largo, lontano dal chiasso, ti metti a pancia in su. Stai così sperando di ritrovare quella sensazione talvolta ritrovata, più spesso perduta, che ti fa tornare feto che nuota protetto dal corpo della madre guerriera di dolcezza. Là, lo sai, lo senti, la radice del rimpianto che da sempre ti tormenta e sempre lo farà.

Avevi la perfezione, l’hai persa per sempre, corrotta dalla venuta al mondo.

E allora immergi le orecchie sotto l’acqua e lasci che l’ottundimento dei rumori ti allontani dal clamore. Chiudi gli occhi e ti unisci con un atto puro a quella mancanza, a quel ventre generoso, a quel silenzio, a quell’intimità perfetta.

Torni a lei, che è ricordo in quanto non più presenza, che è metafisica per carenza di fisico, di spazio in cui rifugiarsi.

Il solo modo per sopperire  all’assenza di tua madre è ritornare là dentro dove non c’era bisogno di parole o di gesti, ma soltanto della presenza.

Galleggi nella posizione del morto, e rinasci.


Distogli i sensi dalle onde.

Torni seduto sulla battigia.

Poi t’alzi.

Lo fai quando t’accorgi che quella gioia sta per diventare posa compiaciuta.

Quando l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire l’evidenza impalpabile sta per diventare orgoglio.

L’ego non dà tregua.

E ti riporta al sonno delle abitudini.

Sei stato bene con te.

Quando ti sei dimenticato di te, e sei stato.

Ritorni con calma verso un gruppo di conoscenti e chiedi se han bisogno d’aiuto, per riportare alla base, le molte cose che avevano trascinato in riva al mare.

Camminando ti volti per un ultimo sguardo verso il mare.

Ma vedi solo sabbia e acqua.

Di nuovo, come spesso purtroppo accade, i tuoi occhi guardano senza saper vedere.

 

 

 

sabato 9 febbraio 2008

post carnevale, follia ufficiosa

 

Cammino, fluttuo, per strada.

La direzione è la fuga.

Fuga dal niente che riempie tutto.

Fuga dal tutto che non lascia più spazio.

 

Mercoledì.

È passato carnevale.

Ieri era la follia conclamata, oggi quella ufficiosa.

Per terra tracce di festa: coriandoli, stelle filanti, vomito.

Venezia è morta da tanto, e vive solo grazie alla bellezza che contiene in sé, a cui non si può non perdonare tutto. Anche la coazione ad essere venduta.

Suoi unici abitanti, vecchi piegati dall’umidità, ricchi mercenari, ignoranti inebetiti dagli spritz, poca gioventù soggiogata dall’isolamento.

Uno sguardo attento a vedere, senza pensieri che ottundono la semplice verità, e confondono ciò che è con ciò che io credo che sia.

La strada straripa di donne e uomini ridotti allo status di turista, sviliti dalla sagacia  immorale di commercianti di souvenir della vuota nostalgia meretrice.

Maschere, vetri, scarpe, bottiglierie, pizzerie, occhialerie, alberghi, fast-food, cucina tradizionale, cinese, araba.

Cammino zigzagando tra trolley grandi come tir e zaini misura camper.

Rido e canto canzoni finte che fingo di ascoltare da cuffiette che non emettono alcun suono ma che limitano l’invadenza di quel parlare idiomi incomprensibili dai toni stanchi.

Cinesi avanzano a grumi e si distinguono per questo rimanere compatti, e per i vestiti di chi è disoccupato alla fantasia.

Giapponesi a piccoli gruppi, da due a cinque, camminano con borsette, passo, pettinature e vestiti da sfilata. Si scattano foto con espressioni standard: sembrano cartoni animati da bambini che lanciano urletti isterici e sostituiscono in senso onomatopeico il nulla del loro non ragionare. Non guardano mai negli occhi.

Americani si distinguono tra obesi e muscolosi iper tonici. Arrotondano le parole con dei versi che sembrano scivolare sulla loro stessa parodia. Hanno bei denti, sguardi felici di chi antepone l’ottimismo semplice alla pedante complessità. Sono evidentemente quel che sembrano e il mondo li guarda sconcertati.

Bengalesi pettinati con righe in parte iperboliche lasciano scie speziate.

Inglesi pallidi portano con sé una nobiltà decadente, umiliata dai più giovani che non nascondono una disperazione penetrata fin dentro le ossa. Sanno di pioggia, cielo grigio, case marrone a perdita d’occhio, socialità costrette dentro uffici o pub, e birra a gonfiare il ventre.

Tedeschi a misura di famiglia che non si vergognano di niente. Purché sia efficiente e affidabile.

Francesi che sembrano italiani con l’erre moscia con la stronzaggine intrinseca di chi passeggia in centro.

Spagnoli che sembrano italiani che se ne fregano di essere sempre e comunque vestiti alla moda e parlano ancora ad alta voce e ridono.

Olandesi biondi e impermeabili alle emozioni che leggono guide turistiche dalle loro altezze siderali che compensano il fatto che vengono dai paesi bassi.

Ai lati neri robusti vendono borse finte. Parlano gutturale, ridono sempre tra loro e uccidono afflati di simpatia pur di vendere qualcosa.

Altri vendono altro.

Zingari rumeni mendicano compassione ai sensi di colpa.

Veneziani vendono ritratti stereotipati di angoli cittadini inesistenti commissionati in Cina.

 

Io sono il mondo, anche.

Il primo, il secondo, il terzo e finanche il quarto.

Contengo tutti i mondi, in scala gerarchica.

Mondi che coesistono detestandosi.

 

Tutti hanno le stesse scarpe da ginnastica. Alcuni, scarponi neri. Altri imitazioni di scarpe. Altri i sandali.

Maglie e camicie sudate.

M’han rotto i coglioni, penso.

 

Mi metto ad un lato della strada, tra un negozio di scarpe e una libreria da turisti.

Fingo di ascoltare musica, mi metto a ballare breack-dance e poi faccio il robotino che si muove a scatti.

Poi fingo di raccontarmi e ascoltare una barzelletta e rido a voce altissima, il tutto col silenzio del mimo.

Poi mi stendo fingendo di essere colpito da una spada invisibile e accuso il colpo rinclando vistosamente.

Poi mi sposto in un campo attiguo, prendo posizione dove ho spazio a disposizione e comincio a roteare su me stesso; prima piano poi sempre più veloce sino a non distinguere più l’immobilità e l’imponenza dei palazzi che mi circondano.

Roteo danzando come i dervisci.

Dopo qualche minuto mi fermo.

La testa gira, mi lascio cadere morbidamente a terra.

 

Mi si avvicina una bella e giovane bionda vestita con una gonna lunga e una camicia leggera.

Mi appoggia le labbra sulle labbra, leggera, senza impegno.

Mi guarda con gli occhi azzurri e chiari e ingenui di chi ha non più di venticinque anni.

Mi sussurra ad un orecchio: “ I understand you”, e se ne va.

 

Mi rialzo.

Mi spazzolo i vestiti senza polvere.

Vedo un paio di decine di occhi che mi fissano incuriositi.

Sulla borsa appoggiata a terra, qualche € di caritatevole predisposizione all’arte che non ho manifestato.

La prendo, metto in tasca i soldi e vado salutando con un gesto della mano.

Squilla il telefonino.

“sì, pronto”

“dottor Persepolis, sono Giaquinto. Sto male, ho bisogno di vederla. La prego, posso venire oggi?”

“Giaquinto, sono ancora per strada. Appena arrivo in studio controllo con Anna gli appuntamenti, e se ho un buco la ricevo.

Se non è oggi, sarà per domani. Ha preso gli ansiolitici che le avevo prescritto? Sì, bene. Ci sentiamo più tardi”

“ Anna, sono io, sto arrivando. Se qualcuno telefona, prenda appunti che poi sistemiamo gli impegni. Sì, a tra poco”.

 

 

Vorrei cambiare il solito.

Divertirmi col sole.

Rinfrescarmi col vento.

Vedere con occhi di bambino.

 

domenica 3 febbraio 2008

racconto disgustoso?

lo scorso fine settimana sono stato al rifugio "alpe madre" sul monte grappa per un reading.
io e marco abbiamo letto tre brevi racconti ciascuno accompagnati alla chitarra da umberto.
propongo di seguito il primo dei miei tre racconti. 
lo faccio perché ha provocato in una delle spettatrici presenti, reazioni molto forti: ha scritto una mail ai proprietari dicendo che il racconto le aveva causato disgusto e che le aveva rovinato il pranzo. ha poi aggiunto che non voleva dire che è un argomento da censurare, ma che comunque la gita in montagna e il buon pranzo erano irrimediabilmente compromessi dal mio scritto.
proponeva, insomma, che si dovrebbe avvisare i clienti degli argomenti trattati affinché questi possano scegliere se aderire o meno. 
trovo la richiesta ragionevole.
e comunque credo che questo breve racconto non possa risultare talmente disgustoso da rovinare un pranzo; magari brutto, inutile, ma non indigesto.
eccolo.......
 

 (per) piacere

 

Quando ero piccola, ero molto curiosa e timida. Conservo di allora ricordi vividi, speciali; protezione  e calore erano sensazioni frequenti, che s’intrufolavano in ogni cellula del mio corpo,  su cui mi abbandonavo.

Mi nascondevo dietro alle gonne della mamma per spiare, invisibile, le persone.

Non potevo distogliere lo sguardo da niente, non riuscivo a non pensare, commentare,  classificare.

La più bella donna ch’io ricordi,  a tutt’oggi insuperata, era  bruna, un po’ tonda;  di quelle  piene, prosperose, rosse sulle guance, il seno gonfio; sembrava un frutto da succhiare.

Aveva  capelli ricci, non molto lunghi,  un volto  vivo  e intelligente che io, a sette anni, fantasticavo potesse appartenere alla Madonna.

Una Madonna accessibile.

Era l’unica, e lo è soprattutto adesso, ad esprimere  un’unicità, un primato di autenticità incontestabile, di nobiltà e grazia.

Per questo credo caparbiamente che la bellezza non possa avere la sua taglia; le sue curve abbondanti solleticavano invitanti pensieri, proibiti ma legittimi, che esprimevano le virtù che solo un pezzo unico possiede.

 

Barbie aveva gambe lunghe, un seno teso e abbondante e la sua pelle non conosceva ingiustizie. Una pelle di plastica, perfetta, immodificabile anche se finta.

Lucia a sedici anni si è rifatta il seno ed ora, d’estate, esibisce, come fosse su  una passerella, due rotondità  alla cui estremità svettano sfacciati due capezzoli che sono tanto sconci quanto irresistibili.

Una volta ho visto un documentario in cui mostravano attrici del mondo del porno  che prima di esibirsi si mettevano il ghiaccio proprio lì.

Non credo che Lucia, a scuola e in piazza faccia altrettanto, ma nel dubbio preferisco proprio non vederla.

Ormai so che i ragazzi, quasi senza accorgersene, guardano sempre lì. Come se lei fosse quello, quei capezzoli a punta: una promessa.

 

 

………“Non posso credere che dei corpi finti, dei falsi sorrisi siano diventati un punto di riferimento; la maggior parte delle mie amiche le conosce per nome: è l’era delle letterine e soubrettes varie. Non ci vorrei credere, ma la realtà in cui viviamo è questa e sembra si siano ribaltati i ruoli: la vita è lo specchio della televisione e non più, come sento dire spesso, il contrario”….

Mio padre fa sempre sti discorsi e non vuole mangiare con la tv accesa.

Dice sempre che ai suoi tempi i divi e le dive erano, appunto, paragonabili a divinità.

Paul Newman, Marlon Brando, Sofia Loren; rappresentavano assieme ad un’altra dozzina di nomi una sorta di mito inarrivabile.

Erano creature che vivevano nell’Olimpo, o meglio, nelle colline di Beverly Hills e rappresentavano l’universalità  dei canoni di bellezza dell’epoca; più o meno dice così e forse ha ragione.

Io vorrei dirgli di venire a scuola o in piazza.

Di ascoltare, di guardare.

E’ una corsa in cui si perde comunque; c’è sempre qualcuno di più bello, più figo, più ricco, più magro.

Maschi o femmine, non fa differenza.

E se ci sono quelli che sono e hanno un po’ di più, ci sono anche quelli che sono e hanno di meno: io.

 

Mamma mi capisce, sa che non faccio apposta.

Mamma sa che sto consumando  corpo e  ragione, e che quest’ossessione ha la dignità di una malattia.

Mamma sa che non mi invento sempre tutto.

Mamma piange con me, nella mia camera e in ospedale. Quando mi lava in vasca mi accarezza dolcemente, per paura di rompermi, dice.

Anche dai dottori mi sento rispettata.

Purtroppo questo non significa che riescano a comprendere e condividere fino in fondo il mio desiderio di non avere imperfezioni, carni flaccide, seni cadenti.

Loro non possono essere dietro ai miei occhi quando mi specchio, e vedere quel che io vedo.

 

Quando guardo le altre ragazze riesco ad accettare e capire anche le più brutte, le più ridicole.

Il problema lo sento su di me; sul mio corpo, sul mio cuore.

E quando mangio reagisco in modo espulsivo.

Rigetto.

 

Certe volte riesco a dimenticare come sono e viaggio con i desideri e le voglie. Mi vedo lontana da qui, con gente come me.

Certe volte non riesco a sentire alcun interesse e mi abbandono a questa malinconia. Faccio fatica e non capisco: qual è il segreto che ho dentro e che devo affrontare?

La gente mi fa paura e non mi sento mai all’altezza. Mi dicono sempre che quasi tutti si sentono così e che questo è un problema superabile.

Mi dicono che se continuo così rischio molto.

Il mio fisico indebolito me lo dovrebbe suggerire ma la mia testa comanda al corpo di espellere, di non accettare niente.

Vorrei sparire per diventare ricordo.

Per questo, da quando ho raggiunto i pochi chili che peso, mi nutrono con le flebo.

Ho fatto un patto con me stessa: capirò  dal momento stesso in cui sentirò che anche loro accettano e capiscono me.

Ne ho un bisogno da morire.