Davanti al mare
Davanti al mare, estate, tardo pomeriggio.
Stai in piedi, guardi e ascolti.
Guardi e vedi l’acqua, madre primordiale, fluida necessità.
Guardi e vedi l’orizzonte che unisce in una sottile linea gli elementi che apparentemente sembrano separati.
Senti sulla pelle la forza del calore del sole, pallone giallo infuocato che dà luce.
Odori la salsedine che accarezza l’olfatto e scende in gola solleticando il gusto.
E senti l’arrivo e il ritorno dell’acqua che si fa schiuma e torna subito liquida.
Sembra tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo.
Stai così un minuto, cinque, dieci.
Poi decidi di sederti.
Rilassi le spalle, che ti accorgi essere tese.
Siedi comodo, sciogliendo il più possibile i muscoli che sono tesi tesi, tirati come fili dell’alta tensione.
Seduto così, t’accorgi di non esserti messo comodo prima perché pensavi agli altri; a cosa avrebbero potuto pensare di te.
Di quest’uomo-ragazzo che viene in spiaggia con la figlia e che legge, sta spesso in silenzio, in disparte, ha un’aria autunnale e non socializza come gli altri.
Che ha perduto persone importanti che non vivono più.
“che stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?” ti sembra di sentire le parole dei loro pensieri.
“sto nullando, sto nientendo”, risponderesti loro.
“e dovreste provarci, qualche volta”, aggiungeresti.
E diresti: “sapeste quanto è ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente eppure mesta, disinteressata all’esibizione, disinteressata all’ambizione”; lo diresti, se avessi voglia di parlare a quegli sguardi nascosti dietro l’indifferenza da professionisti.
E invece taci.
E ristori la mente, quieti i pensieri, smussi gli angoli, tradisci la fretta, aborrisci l’inutilità, sposi e baci e lecchi l’essenza.
Lo sguardo e l’udito seguono il ritmo regolare delle piccole onde che arrivano alla carica per poi ritirarsi subito.
Vengono e vanno; arrivano e partono; giungono e lasciano.
Onde discrete, leggere che s’arricciano sulla sabbia.
Quando vai a fare il bagno, nuoti per sfiancarti e raggiunto il largo, lontano dal chiasso, ti metti a pancia in su. Stai così sperando di ritrovare quella sensazione talvolta ritrovata, più spesso perduta, che ti fa tornare feto che nuota protetto dal corpo della madre guerriera di dolcezza. Là, lo sai, lo senti, la radice del rimpianto che da sempre ti tormenta e sempre lo farà.
Avevi la perfezione, l’hai persa per sempre, corrotta dalla venuta al mondo.
E allora immergi le orecchie sotto l’acqua e lasci che l’ottundimento dei rumori ti allontani dal clamore. Chiudi gli occhi e ti unisci con un atto puro a quella mancanza, a quel ventre generoso, a quel silenzio, a quell’intimità perfetta.
Torni a lei, che è ricordo in quanto non più presenza, che è metafisica per carenza di fisico, di spazio in cui rifugiarsi.
Il solo modo per sopperire all’assenza di tua madre è ritornare là dentro dove non c’era bisogno di parole o di gesti, ma soltanto della presenza.
Galleggi nella posizione del morto, e rinasci.
Distogli i sensi dalle onde.
Torni seduto sulla battigia.
Poi t’alzi.
Lo fai quando t’accorgi che quella gioia sta per diventare posa compiaciuta.
Quando l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire l’evidenza impalpabile sta per diventare orgoglio.
L’ego non dà tregua.
E ti riporta al sonno delle abitudini.
Sei stato bene con te.
Quando ti sei dimenticato di te, e sei stato.
Ritorni con calma verso un gruppo di conoscenti e chiedi se han bisogno d’aiuto, per riportare alla base, le molte cose che avevano trascinato in riva al mare.
Camminando ti volti per un ultimo sguardo verso il mare.
Ma vedi solo sabbia e acqua.
Di nuovo, come spesso purtroppo accade, i tuoi occhi guardano senza saper vedere.
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