Freddo zero gradi
Il freddo zero gradi invade ogni spazio, ingravidandolo di brividi.
Esco da casa ed è lì fuori che aspetta.
Sembra quasi avere una personalità e un carattere caldo, per controbilanciare le sue emanazioni gelide.
I miei occhi lacrimano col freddo, una specie di pianto protettivo. Il viso pallido e le mani violacee sbucano da sciarpa e cappotto marrone spinato.
In mano le chiavi dell’auto che faticano a centrare la serratura, ubriache e rigide d’inverno.
Non porto il cappello perché altrimenti mi rovinerebbe i ricci messi a tacere dal gel.
Sì, perché sono ribelli e dispettosi; e allora, giusto per insegnar loro la disciplina, li incollo con quella gelatina trasparente e appiccicosa: “ qui comando io, sono io il padrone!”.
La mia casa è il mio corpo, sopra cui loro sono ospitati.
Per alcuni anni li ho portati lunghi; anzi luuunghi, luunghissssimi. M’arrivavano fino a oltre metà schiena da bagnati; da asciutti, meno; molle retrattili che si tirano e ritirano, boccoli di spago nero sottile arrotolato su di sé.
Un tempo, l’altra volta che li avevo tenuti lunghi- da diciottenne ribelle con l’urlo sulla pelle, l’ormone scatenato, il pugno alzato, il cannolo arrotolato pendente dalle labbra, le endovenose in agguato nelle piazze, il canto no future nelle orecchie, le birre per ruttare sul mondo bastardo- avevo dei boccoloni che mi si adagiavano sulle spalle per poi cadere giù in picchiata lungo schiena o petto; avevo provato per curiosità ad aprire quel grumo compatto simile ad una frusta; ebbene, dentro, un fitto strato colloso con animali e insetti di ogni genere: sembrava un ambiente boscoso, una riserva selvatica.
E proprio oggi, in questo zero centigrado, punto d’equilibrio tra il più e il meno, ho svuotato lo zaino che di solito adopero e ho messo tutte le mie cose dentro la borsa di cuoio che usavo proprio in quegli anni caldi di sangue fertile e rabbia ingenua.
Al suo interno, tante firme.
Soprattutto di ragazze, amiche e fidanzate dell’epoca.
Uno sforzo lieve per ricordare.
Ricordo quasi tutte e tutti; l’aspetto, l’eloquio, il ruolo all’interno del gruppo.
Erano tempi capelloni, e si parlava, spesso, di cosa fare, dove andare, come affrontare quel presente dal sapore di nulla. Col lusso di chi ha così tanto tempo da concedersi la noia.
Ricordo in particolare una di loro; i suoi baci caldi, lenti, senza fretta: perché dove si dovrebbe andare visto che stiam facendo la miglior cosa possibile al mondo?
E una saggezza che nemmeno mi sfiorava; sta lontano da quella roba, da quella gente; vieni qui tra le mie braccia, dentro la mia bocca, a cuccia tra i seni, tra le mie gambe umide; vieni dentro che ti scaldo e proteggo io, corazza d’amore.
E poi stringimi, che ci nascondiamo; che se ci trovano, troveranno due persone in una: forti ben più del doppio di ognuno di noi, e voi, che non capite e che mai capirete la verità di questo dolce bisogno.
E ricordo di averla perduta perché non sapevo ascoltare altro che le urgenze della mia età.
E c’era anche un ragazzo là in mezzo che se n’è andato, da solo, dentro un’auto, in un posto isolato, con il cuore fermo, la pelle bianca, le labbra e le unghie blu, freddo come il gelo delle domande che scaldava con le risposte sbagliate. L’han trovato dopo una telefonata anonima: c’era qualcuno con lui, ma niente nomi; solo rimpianto e rammarico e un segreto che gli peserà per sempre, credo. Come quando la vigliaccheria sfiora il buon senso
E poi ce n’è un’altra che stava assieme ad un ragazzo che usava la polvere maledetta anch’egli.
E girava con un’insulina in borsa, pronta ad immolarsi per lui; disposta a capire quei perché– ce ne sarà stato almeno uno- ch’egli non sapeva tradurre in parole, ma solo in fatti brutali che poi pagava e pativa col tremore e la tristezza dello sconfitto.
E poi gli altri, che erano dentro la borsa, ma solo da comparse, poi scomparse.
E in questa mattina zero gradi centigradi, con queste chiavi in mano che faticano ad entrare nella serratura intasata di freddo, circondato da questo profumo che non puzza ancora, soltanto, del fetore di città, apro la portiera ed entro.
Mi stendo sullo schienale dopo aver appoggiato la borsa.
La guardo, aspettando che s’esprima.
Voci invadono l’abitacolo.
Escono da figure che scaturiscono da firme.
Mi guardano.
Io le guardo.
Ci sorridiamo con facce d’epoca, chissefrega dei vent’anni e più che son passati.
E come va?
Va bene; va meglio soprattutto da quando mi faccio le domande giuste e non agisco solo risposte rabbiose.
Sì, ci sono ancora i colori nelle fantasie, e ci sono tante più verità e molte meno bugie.
E tutto è più delicato e facile.
E quel tipo di paura viva è sparita, lasciando il posto a inutili timori adulti, e alibi circostanziati.
Anche se ormai non ho più tempo .
Anche se però mi mancate.
E questa mia faccia – e mentre lo dico chiedo conferma allo specchietto retrovisore- è ancora giovane e tutto sommato bella.
Poi allungo una mano e accarezzo quei visi, che sorridono al tocco.
E guardo lei.
Avevi ragione, già da allora, ma dovevo toccare quello schifo con queste mie mani e sporcarle.
E poi guardo lui; non dico niente.
Qualsiasi parola sarebbe troppo e troppo poco.
E sorrido commosso.
E lo abbraccio e stringo fraterno.
E tutti gli altri, vestiti sgraziati come allora, li saluto con la mano.
In macchina il riscaldamento sta facendo energicamente il suo dovere.
Guardo l’ora.
Li guardo con lo sguardo gentile e chiedo loro di tornarsene in borsa.
È tardi e devo andare.
Anche se non è mai troppo tardi.
Anche se ci hanno sempre detto e inculcato il contrario.
Non è mai troppo tardi.
E ad ogni fine coincide un nuovo inizio.
Fuori è zero gradi.
Dentro si sta bene.
Vado.
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