In un supermercato triste,
pagando alla cassa incontro
vecchi amici di famiglia.
Mi riconoscono loro,
non sono fisionomista,
solo frullati di visi senza nome,
senza etichette e storie.
“Come sta il papà, bene?”
Ho quasi quarant’anni, penso;
per non saper cosa dire si parla
del poco che ci è comune.
“Bene, grazie”, rispondo. Sì,
anche mia figlia sta bene.
Mi dicono che ci hanno visti assieme,
mentre leggevo una poesia.
Una loro amica ne è appassionata.
Esco dal buco sotterraneo, le
scale mobili mi riportano lente alla luce.
Le borse piene pesano.
Cammino lento, braccia allungate,
tese, una lieve curva, quasi una gobba,
disegnano il profilo del peso;
la spesa, i pensieri, si sommano,
aumentano la fatica.
Mi hanno chiesto del papà.
Una lacrima mesta, umile,
eppure spessa, si forma oltre
la soglia dell’occhio: scavalca
poi scivola giù pesante.
Nessuno chiede più di mamma;
sono solo da quella parte
senza lei, senza origine femminile.
Sono quel che sono ora;
grande, genitore anch’io.
Mi manca quell’appoggio,
quel conflitto, la sicurezza,
l’idea, la persona fisica.
Il 23 settembre l’anniversario.
Riposa mamma; io vivo: lo giuro.
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