mercoledì 26 marzo 2008

C’è quest’aria sporca

e rumore di nausea

e auto, auto, senza fine.

C’è un cielo coperto,

un confine grigio marcio,

un assordante inutilità.

Nel bus schiaccio e strofino

il corpo su altri corpi,

rigidi e spettrali e perfetti.

Brusio invasivo ai timpani,

bocche brutte invitanti,

eruttano volgarmente il generico.

E’ il codice morto

di maestra tivù, necessaria e

sconcia puttana di famiglia.

Ad un tratto c’è  silenzio,

 nessuno lo sente né lo accoglie,

dura solo un attimo ma è eterno.

Così m’acquieto e accetto

questo giorno obliquo,

questo male al petto

che passerà mesto e indifferente.

Restano  i dubbi,

di un vivere inutile,

lontano dall’origine,

dalla dignità e dall’amore.

lunedì 17 marzo 2008

nudo

nudo

 

C’è un silenzio sopra le righe, stasera

il solito cielo scuro d’estate

illuminato da luci lontane

invita suadente all’esilio dell’inutile.

Basta spesse barriere, non servono

non bisogna nascondersi,

da cosa, da chi, poi?

Me ne sto nudo, senz’allerta.

Aspetto calmo il momento

che verrà subito dopo questo;

è liscio, quieto, antico e saggio,

accetta il suo posto qualunque.

La misura è quella che è,

che dev’essere  e così sia.

Sento la verità sussurrare,

che così sempre, sarebbe un miracolo.

Sotto questo cielo scuro,

quel che serve:

occhi e bocca e naso,

per guardare  e respirare;

e mormorare piano: grazie. 

domenica 16 marzo 2008

 

Mi sono visto fingere

Essere ciò che non sono

E anche se non so ancora

chi io sia

so come non sono

 

la ricerca appassionata di verità

simile ad un sogno sognato

mi spinge e costringe

e sono solo

 

la solitudine dolce  accarezza

la schiena il collo

sono  comodo nei panni

di un punto interrogativo

 

scavo ignaro

sicuro nell’ incertezza sporca

che fluire abbandonandomi

corrisponda calore

più della logica

 

nel chiuso ermetismo

rifugio

 

nel segno volgare

caos

giovedì 6 marzo 2008

Cosa cambia davvero se tutto cambia ma in realtà non cambia niente?

Cosa vedrebbe uno degli operai morti a Porto Marghera – ma anche tutti gli altri di ogni dove- se tornasse oggi e osservasse l’esistente? Vedrebbe un mondo, compreso il suo piccolo mondo, enormemente mutato; eppure, per quanto riguarda quella che sarebbe la sua realtà traslata all’oggi, scoprirebbe le medesime condizioni esistenziali. Un’altra forma, una stessa sostanza.

Si pretenderebbe da lui quel che si pretendeva allora.

In un’epoca in cui si vuol sembrare qualcun altro e ci si adopera tutti per questo “voler essere”, non ci si è accorti che questo, questa volontà, è diventata un “voler avere”.

Poter avere, per poter essere.

Sarebbe davvero amaro per tutti, se tornasse.

Potrebbe avere l’impressione che la sua morte, è stata inutile.

 

                                   due undici zero uno

 

Sali sull’autobus arancione con dentro plastiche chiare  e sedili blue elettrico e altri colori fosforescenti.

Sedili sopra cui ti siedi, per sentir la differenza con quelli in plastica e ferro di un tempo.

Parte, silenzioso, scatti minimi del cambio automatico, riscaldamento o aria condizionata, a seconda della stagione.

Comfort moderni, pensi; ecco i parametri attraverso cui misurano il tenore di vita, il grado di civiltà, la potenziale contentezza del vivere.

Guardati attorno, cogli l’agio, l’allegria, la soddisfazione.

Da queste facce, da questi sguardi, da questa solitudine concreta, non si nota alcun progresso; semmai appare un benessere  formale, ostentato, mai vissuto, forse nemmeno fantasticato.

Man mano che l’autobus avanza si riempie di gente.

Ciascuno porta con sé quel che è, la sua storia, il suo carico di umanità e la sua difficoltà a mantenerla, che scappa dalle mani, si nasconde e si trasforma fino a diventare  assenza accettabile.

La gente si muove, massa compatta, come fanno gli atomi tra loro, seguendo il ballo delle curve, il ritmo delle frenate, la spinta delle accelerazioni

Appoggi la testa al vetro, senti la plastica frapporsi tra te e il fuori.

Senti voci, parole sussurrate; sono pensieri, scomposti, illogici, conservati come merce preziosa, nella memoria del mezzo.

Ricorda tutto quest’autobus, ti dici, e lo tiene dentro sé quasi che, senza, si affloscerebbe come fanno i palloncini quando esce l’aria.

Dal finestrino su cui sei appoggiato vedi scorrere la città.

Come lo schermo di un cinema, proietta il suo film. 

Come uno spettatore, prendi nota mentalmente del susseguirsi delle immagini.

Vedi pezzi che conosci alternati a immagini di una città che non è più la tua.

Mentre la tua testa ascolta le parole del finestrino, il ragazzo seduto sopra di te chiede ad una vecchia se voglia sedersi facendo un accenno di disponiblità, ma lei dice di no, che deve scendere alla prossima.

Nel suo volto, tra le rughe dure, ammonticchiate in orrizzontale o verticale, si disegnano linee contrastanti: gratificazione e sdegno, consapevolezza e rifiuto. Si vede che non riesce a percepirsi vecchia e al tempo stesso si rammarica di esserlo; perchè in fondo lo sa, e sa che  la fatica si vede e che la stanchezza si annusa.

Ed è però anche contenta ci siano ancora giovani gentili e disponibili.

Poi si avvicina alla portiera centrale che s’apre sbuffando e scende,  accennando un saluto che lui non vede, lenta, come alla moviola, come chi ha ossa e muscoli consumati dal percorso della vita.

Man mano che si avanza l’autobus si riempie ancora, fino a non consentire alcun movimento spontaneo.

Si sentono lingue e odori di ognidove.

Si vedono facce e colori di ogni provenienza.

Si vede il campionario di un mondo sempre più piccolo eppure sempre più distante.

Sono tutti vicini, costretti al contatto forzato.

Hanno tutti l’aria di chi sente di essere irrimediabilmente solo.

Di chi ha paura dell’altro, di chi teme che anche la più insignificante concessione alla relazione possa presagire alla catastrofe.

Sono la prova provata che questa città non è più la stessa, che la nostalgia serve solo a rifuggire il presente, che qui, ora, sopra quest’autobus arancione coi sedili blue fosforescente, il mondo è diverso da com’era quando gli autobus erano verdi, la polizia era verde, le fabbriche fumavano veleno, e traboccavano di ansie sopite da promesse vane, e la contrapposizione politica era un bluff così evidente, così strumentale, così tendente alla cieca fede, da indurre a pensare che quell’interpretazione trasudava quanto meno ingenuità.

Non si poteva, e forse non si può ancora, svelare la semplicità senza setirsi stupidi.

E tu eri giovane, forte, con una moglie bella e innamorata, due bambini riccioluti, e ti sentivi parte di un complesso sistema di regole, di diritti e doveri da pretendere e di cui rispondere, e venivi ogni giorno a lavorare, a faticare, pur senza grandi cause, forse perchè ti sembrava che in fondo a ognuno tocca un destino che è giusto assecondare.

E ti sentivi così anche quando hai iniziato a stare male, a sentire che la forza era solo un ricordo e la giovinezza un rimpianto.

Dicevi e pensavi che doveva andare così, che il destino è scritto e nessuno può leggerlo.

Arrivi in Via Righi, la via delle fabbriche.

Giungono ricordi. Ricordi di quando la tivù era ingenuità in bianco e nero, la polizia aveva pattuglie verdi, e le industrie di Porto Marghera ospitavano una popolazione immensa, inconsapevole, sacrificabile al progresso.

I tuoi occhi, allora, vedevano un mondo squilibrato, violento e cattivo, e però ti si spiegava che era la tua età a fartelo vedere così.

Poi anche tu sei diventato parte di quel sistema produttivo.

Gli operai come te erano controfigure viventi di un ideale, oggetti-soggetti buoni per propoagandare una fede parallela a quella del Dio propagandato da Roma.

Venite qui, vi accogliamo  noi, con noi sarete al sicuro e se anche morirete presto, prima della pensione, lo farete certi che il sacrificio abbia comunque una sua particolare bellezza, un suo originale senso, una sua santità felice.

Fedeli e infedeli; padroni e schiavi: parole dal sapore antico; ma bastava una parte da cui stare e un’altra contro cui combattere per non sentirsi soli.

Semplificazione terminologica che ancor oggi impera: è sufficiente operare soltanto qualche ritocco geografico e rimodernare qualche aggettivo sociologico: i nemici non mancano mai.

Ma la verità e la realtà non subiscono il tempo, non riconoscono parametri funzionali e definizioni antiche o moderne.

La verità e la realtà sono sempre là, a disposizione; aspettano che ne sentiamo l’odore, che ne percepiamo la presenza, che ne intuiamo la sostanza.

Oggi invece senti che questo ponte che unisce la città una e trina, da cui guardavi con innocenza attraverso i finestrini degli autobus verdi, e vivevi l’illusione meravigliosa di quelle luci che alla sera facevano sembrare le fabbriche una città immaginaria abitata da persone e storie; oggi quel ponnte sembra solo quel che è: un nastro d’asfalto sospeso sull’acqua.

E oggi sai che il tempo non esiste.

Che le coscienze oggi le lavorano in forma moderna, interattiva, subliminale.

E oggi, dopo quella sentenza che un giudice con un nome da animalista, che ha sancito la non colpa dei colpevoli, che ha cancellato vite e morti, sai.

Sai che non ci sarà mai memoria, e tu e loro, seppelliti dal profitto e celebrati dall’illusoria speranza di riscatto, sarete solo un inutile errore che si perpetua.

E un ricordo dimenticato.

domenica 2 marzo 2008

ritmo ritmo

AFORITMI

 

 

Mi rubano il tempo, penso

E io li lascio fare

Ritmo ritmo

 

Non sono più padrone di me, penso

Lo fossi mai stato

Ritmo ritmo

 

E intanto corro, penso

Proprio come fanno tutti loro

Ritmo ritmo

 

anch’io sono loro, penso

Adeguato abituato affidabile

Ritmo ritmo

 

Sto perdendo il senso, penso

Qualora l’avessi mai trovato

Ritmo rtimo

 

E intanto mi do da fare, penso

Per arrivare almeno alla sufficienza

Ritmo ritmo

 

So di non sapere, penso

E capisco di non capire, ma fingo

Ritmo ritmo

 

Mi nausea, non l’accetto, sono stufo, penso

Eppure non riesco ad uscirne

Ritmo ritmo

 

Mi fermo un attimo, penso

Sto nientendo, sto nullando: stop

Ritmo ritmo

 

Cerco una mia dimensione, penso

ma fin che cerco, non trovo

ritmo ritmo

 

vieni qui che ti annuso e mangio, penso

ma poi ti chiedo cosa vuoi da me?

Ritmo ritmo

 

Lasciami essere, penso

E invece dico lasciami stare

Ritmo ritmo

 

Ho iniziato a morire appena nato, penso

E non ho ancora iniziato a vivere

Ritmo ritmo

 

Quando sto bene mi scopro, penso

Quando sto male mi convinco a nascondere

Ritmo ritmo

 

Questa velocità m’inebria e stordisce, penso

Avvolgente e inutile com’è

Ritmo ritmo

 

Sono ad un punto morto, penso

Lo so perché ho conosciuti quelli vivi, e non sono così

Ritmo ritmo

 

Sono libero, penso

Libero dal desiderio di libertà

Ritmo ritmo

 

E stasera sono qui, penso

A celebrare il

Ritmo ritmo

 

 

sabato 1 marzo 2008

 

In un supermercato triste,

pagando alla cassa incontro

vecchi amici di famiglia.

Mi riconoscono  loro,

non sono fisionomista,

solo frullati di visi senza nome,

senza etichette e storie.

“Come sta il papà, bene?”

Ho quasi quarant’anni, penso;

per non saper cosa dire si parla

del poco che ci è comune.

“Bene, grazie”, rispondo. Sì,

anche mia figlia sta bene.

Mi dicono che ci hanno visti assieme,

mentre leggevo una poesia.

Una loro amica ne è appassionata.

Esco dal buco sotterraneo, le

scale mobili mi riportano lente alla luce.

Le borse piene pesano.

Cammino  lento, braccia allungate,

tese, una lieve curva, quasi una gobba,

disegnano il profilo del peso;

la spesa, i pensieri, si sommano,

aumentano la fatica.

Mi hanno chiesto del papà.

Una lacrima mesta, umile,

eppure spessa, si forma oltre

la soglia dell’occhio: scavalca

poi scivola giù pesante.

Nessuno chiede più di mamma;

sono solo da quella parte

senza lei, senza origine femminile.

Sono quel che sono ora;

grande, genitore anch’io.

Mi manca quell’appoggio,

quel conflitto, la sicurezza,

l’idea, la persona fisica.

Il 23 settembre l’anniversario.

Riposa mamma; io vivo: lo giuro.