giovedì 24 aprile 2008

le novità 1

 

Racconto le ultime novità.

Lo faccio più per me; una sorta di memoria, da rileggere in futuro per ritrovare l’oggi ( ma chi lo vuole questo oggi? Io no).

Allora, quando rileggerai, ricordati che:

nella primavera del 2008, in un aprile a giorni alterni invernale o primaverile ( nel 2008 non c’erano più le mezze stagioni) berlusconi vinceva le elezioni in maniera inequivocabile, tu non avevi votato perché, dicevi, proprio non ce la facevi, c’era chi ti accusava per questo di connivenza col boss di cui sopra, il quale aveva contribuito a rendere le persone, persone che usano frasi tipo: è finita, non c’è più feeling tra noi! Voglio un uomo al top! Mia figlia vuol diventare letterina! La verità è un’altra ma questa è più simpatica! Se ho dei problemi seri li risolvo con la defilippi! Chi ti piace tra i tornisti, le torniste, al grande fratello, ad amici, a x factor, a porta a porta? Almeno lui si è fatto da solo e chi dice il contrario comunista è, è!; e io non sono comunista da tempi non sospetti anche se lo fui un po’;

ricordati che stai per vendere l’auto, e per comprarne un’altra; che i venditori sono davvero pari alla loro fama di incantatori di serpenti e che tu ti ci fai ammaestrare con lasciva impotenza; che l’auto è una tua debolezza e un’ammaliante oggetto d’ingegneria,  e con questo ti ricordo che gli ingegneri che hai conosciuti sono tutti uguali e tremendamente insipidi;

che stai per pubblicare un libro che uscirà entro l’estate e che per promuoverlo ricomincerai a proporre i reading che ti piacevano tanto ma che ti costavano una fatica sovrumana; che per luglio uscirà anche un altro libretto che contiene un altro tuo racconto che non sai se replicare anche sul libro ufficiale  o tenerti lo spazio per qualcos’altro in quanto hai davvero tanto materiale; non dimenticare che per essere inserito in questo libretto hai barato e ti sei autovotato ogni volta che potevi e per la tua disonestà ti sei detto che anche i tuoi avversari avrebbero con ogni probabilità fatta la stessa cosa ( è un concorso in cui non decide una giuria, ma i lettori che votano attraverso internet); che tendenzialmente sovrapponi mille e più impegni e rischi di collassare; che stai chiedendo la prefazione a uno serio, un personaggio, uno scrittore vero e che se non prepari per bene i testi ci fai una figura di merda;

che non sei propriamente felice e che tutto questo t’inebria e conquista slavo poi, una volta raggiunto, sgonfiarsi fino a farti desiderare altri bisogni da soddisfare;

che hai un’età e delle responsabilità mica da poco e che non puoi procrastinare in eterno le tue dirette responsabilità adducendo scuse “tipo zen” della serie “ sono così impegnato a vivere pienamente ogni istante che null’altro conta”, a giungendo magari che “mi fate pena perchè voi a malapena sopravvivete”; che in un giorno come questo di sole caldo primaverile potresti convincerti che la vita è talmente meravigliosa che non si può che prenderla tutta, abbracciarla in tutta la sua circonferenza e poi rotolarsi con lei in un campo pieno di fiori, in quanto magari il giorno successivo piove e ti deprimi e rattristi a tal punto da pensare che la morte è processo naturale che accetti pienamente senza paura e che tutto quel che ti trattiene qui è solo attaccamento.

Insomma, adesso basta, piantala, non serve che scrivi tutto oggi e puoi riprendere anche domani che non cambia niente, che se quello che devi scrivere è sostanza, rimane a tua disposizione e continuare a scriverla un’altra volta.

 

……. Diario in progress…..

venerdì 18 aprile 2008

confessione

Lo confesso: non ho alcun problema a scrivere qui  ‘ste cose dal momento che nessuno viene qui a leggere. Questo blog è un surrogato di avan-retroguardia del niente, visto che nessuno che io conosca lo conosce.

Qui, perciò, ci si può concedere il lusso della verità, della ferocia, della libertà, dell’intimità con cui nel proprio cesso ci si sfoga con un repertorio di scoregge, scaccolamenti, correzioni estetiche e smorfie.

Te lo dico, te lo sputo addosso come se la vergogna non fosse un limite, il pudore non fosse una soglia oltrepassata la quale, tutto si perde, cambia colore, fisionomia, senso.

No, non guardo quasi più la tivù, se non qualcosa su sky - sì, di un altro padrone, come ci fosse qualcosa che non ne abbia- e in effetti sto meglio, mi sento più intelligente, reattivo, valuto con più distacco la mia infelicità, tipicamente occidentale, basata sulla insoddisfazione costante;  vuoi che si tratti di desideri spirituali - vorrei illuminarmi-, o  materiali - vorrei una bella auto e viaggiare molto-.
E poi lo sai,  faccio shiatsu per stare meglio; scrivo e talvolta leggo ciò che scrivo, cosa che mi soddisfa molto, per poco tempo però; così poco che non basta mai, che mi fa venire ancor più voglia di riempire tutti i vuoti con quei pieni, in cui sul palco ci son io, finalmente protagonista, finalmente pieno, ebbro, soddisfatto.
Leggo molto anche questo lo sai, anche se di quel che leggo mi chiedo spesso cosa rimanga, e francamente, resta soltanto una vaga sensazione di leggera ebrezza dovuta al fatto che potrò aggiungere un altro titolo alla lista. Frequento gli intelligentoni di internet affinché, non guardando la tivù, mi possa sentire informato e al centro di qualche cosa.
che poi, frequento?: cosa significa frequento? Non è vero davvero: io sono qui, a casa e loro là a casa loro, e ci conosciamo per nome, spesso finto, e si ha idea di chi sia l’altro solo quando la sua fama merita una foto in qualche articolo o risvolto di libro. Sono in forma e lavoro nel sociale, non mangio carne e pesce da quindici anni e osservo con attenzione quel che mi accade, momento per momento, come suggeriscono i mistici cui una volta credevo; prima di accettare totalmente l’aridità che mi secca occhi, bocca, pelle.
Ma seppure diligente, disciplinato,  non succede niente: non sono contento, non mi pare di essere più utile all’esistenza della razza umana, anche se sarei pronto a giurare il contrario in qualsiasi momento a chicchessia mi si pari davanti e nomini berlusconi.
Sono sempre stato di sinistra, nato in una famiglia di sinistra, con uno zio che qui a venezia veniva chiamato mao, poi convertitosi anch’egli ai ds, prima di morire per la debolezza del cuore, vivendo con sprazzi di soddisfazione che non gli son bastati a non tremare di fronte alla morte.
Sono anche stato comunista e anarchista, come tutti i giovanotti ribelli che si rispettano, per poi capire che anche quella è una trappola, una fede, una sovrastruttura mentale per mentecatti che han bisogno di stare in compagnia di loro simili disposti a ripetere slogan, a ubriiacarsi e ruttare birra, a fumare canne e talvolta a sniffare polveri assassine in cambio di momentanee assenze da quelle patetiche parole e idee.
Mai creduto in dio, mai cercato di trovarlo, sempre stato convinto che anche questa è un’illusione per chi vuol trascendere part time, magari quando sono tristi e soli,  pensano di aver diritto al risarcimento, dopo morti, per aver vissuto una vita di merda contrastandone la puzza con deodoranti e lacca.
E non riesco a votare questi soldatini mercenari illusionisti, correndo anche il pericolo di veder eletto il re degli spacciatori di oppio del popolo consumatore che paga per far circolare l’idea del circo del benessere incarnandone le virtù: se tu sei benessere, penso talvolta, che malattia e malesser mi colgano, lurido finto rappresentante di miserie 3x2.
ti puoi davvero permettere di essere quel che sei: l’alternativa è un pragmatico abisso, una programmata agonia dolorosa e grigia. Chissà che ti venga la forfora di plastica, a te. E un assaggio di vita vera, a loro.

Siamo in occidente, siamo grassi, obesi di vizi, infelici, tracotanti cialtroni dell’apparenza.
siamo destinati all’infelicità eppure sorridiamo con denti bianchissimi.
siamo la decadenza e la morte della vita.

fernando gorup de besanez, “soy echo polvo”

 

martedì 15 aprile 2008

votare oh oh

Neanche stavolta ho votato.

Non ci riesco, è più forte di me – non è vero, me è più forte- .

Il mio commento al voto è che ho la conferma di quanto penso: penso che abbiamo bisogno di un uomo forte, che ci faccia credere che anche noi lo siamo; che ci illuda che la furbizia se ben giocata porta i suoi frutti; che se è proprio un magna magna ci sia qualche avanzo anche per noi; che ci faccia innamorare della vita, quella altrui almeno visto che la nostra fa schifo, con quei bei programmi alla tivù senza canone; che ci illuda che la serietà va bene ma ci vuole anche la barzelletta che ah ah ah ah; che invecchiare è possibile che no, perché se il benessere ci fa fare due soldi c’è il chirurgo estetico; che il signore vede oltre la gabina- è nell’alto dei cieli, no?- e quindi si ricorda poi chi è bravo e chi no; che si possono togliere le panchine ai parassiti che vi si accomodano abusivamente; che non è giusto lavorare come negri e poi pagare le tasse a quei porci che vanno a scrocco dappertutto; che io gli darei l’ergastolo a chi beve, taglierei il cazzo a chi violenta, toglierei le vene ai tossici ih ih ih, darei la pena di morte a chi investe con l’auto: a patto che non sia uno della mia famiglia che è una brava persona di sicuro; che non è giusto morire al lavoro, perché se si muore al lavoro, non si può più, poi, vivere per lavorare; che è giusto avere rispetto per gli altri purché faccia la comunione; che siamo una grande civiltà occidentale in quanto seicento anni fa abbiamo avuto il risorgimento che significa che dopo la morte si può sempre risorgere; che infatti siamo ancora qui; che i preti possono dire la loro a patto poi che non li si criminalizzi perché dicono la loro, magari dicendo la propria opinione su quello che dicono; che sua santità è sua e non nostra; che io rispetto tutti e chi no è irrispettoso; che il contraddittorio non è auspicabile perché ci si contraddice aumentando la confusione della casalinga o del pensionato.

Viva il genio e la sregolatezza.

Viva la figa.

Viva las vegas.

E che Dio protegga questa classe politica che è quello che ci meritiamo.

domenica 13 aprile 2008

NON VOTO

 

In questi giorni molti appelli al voto.

Molte persone degne di rispetto e con buone idee cercano di convincere i molti incerti ad andare a votare adducendo buone ragioni.

Mi sono sentito perfino in imbarazzo; mi sono chiesto per quale ragione tanto convinto ardore, tanta passione pur ammettendo che non c’è niente di cui appassionarsi; anzi, piuttosto affrontare la gastrite che un voto a “questi”, sicuramente avrebbe prodotto.

Narcisisti, imbecilli, illusi; con pretese di purezza, di alterità snob, di snobismo altero, di varie ed eventuali.

Scritto da persone le cui opinioni di solito si prendono in considerazione, in effetti, qualche dubbio viene.

Tuttavia, nonostante il dubbio stavolta lavori più del solito, dichiaro di non votare.

Non perché penso siano tutti uguali, perché tanto una volta al potere diventano tutti corrotti, perché tanto è tutto un magnamagna, o perché non creda che così berlusconi rischi di vincere.

La questione è più semplice:

non riesco a votare nessuno pur cogliendo le differenze tra i soggetti e le idee; non riesco ad avere fiducia in qualcuno; non sopporto davvero più che tutti mentano sapendo di mentire e che è così anche per gli altri ma non lo dice; che si abbiano tesi e antitesi, non solo sulle idee, che mi sembra normale, ma anche sulle cifre e che queste differenze siano tutte convincenti in quanto costruite su misura con taglio sartoriale poiché scaturite da indagini di mercato.

Non mi sento per nulla duro e puro, detesto l’ingenuità, aborro l’ignoranza e la saccenza, la cultura televisiva, quella specialistica separata da tutto il resto.

Mi sento in difficoltà come molti altri con la complessità del mondo, con la semplicità delle ricette che propongono sicure risoluzioni a queste.

Sono preda di me stesso, delle mie contraddizioni, della mia fatica, dei miei desideri.

Nonostante questo, anzi, probabilmente grazie a tutto questo, non mi sento di LEGITTIMARE QUESTO SISTEMA DI VOTO E QUESTE PERSONE CHE SI PROPONGONO A NOI, E QUINDI ANCHE A ME, MENTENDO E NEGANDOLO.

NON POSSO LEGITTIMARLI CON IL MIO VOTO, NON POSSO, NON CI RIESCO E COMUNQUE NON VOGLIO.

 

Molte persone di cui ho stima sostengono di non riuscire a non votare.

Io, per uno speculare meccanismo intrinseco, non riesco a farlo.

Non così, almeno.

mercoledì 26 marzo 2008

C’è quest’aria sporca

e rumore di nausea

e auto, auto, senza fine.

C’è un cielo coperto,

un confine grigio marcio,

un assordante inutilità.

Nel bus schiaccio e strofino

il corpo su altri corpi,

rigidi e spettrali e perfetti.

Brusio invasivo ai timpani,

bocche brutte invitanti,

eruttano volgarmente il generico.

E’ il codice morto

di maestra tivù, necessaria e

sconcia puttana di famiglia.

Ad un tratto c’è  silenzio,

 nessuno lo sente né lo accoglie,

dura solo un attimo ma è eterno.

Così m’acquieto e accetto

questo giorno obliquo,

questo male al petto

che passerà mesto e indifferente.

Restano  i dubbi,

di un vivere inutile,

lontano dall’origine,

dalla dignità e dall’amore.

lunedì 17 marzo 2008

nudo

nudo

 

C’è un silenzio sopra le righe, stasera

il solito cielo scuro d’estate

illuminato da luci lontane

invita suadente all’esilio dell’inutile.

Basta spesse barriere, non servono

non bisogna nascondersi,

da cosa, da chi, poi?

Me ne sto nudo, senz’allerta.

Aspetto calmo il momento

che verrà subito dopo questo;

è liscio, quieto, antico e saggio,

accetta il suo posto qualunque.

La misura è quella che è,

che dev’essere  e così sia.

Sento la verità sussurrare,

che così sempre, sarebbe un miracolo.

Sotto questo cielo scuro,

quel che serve:

occhi e bocca e naso,

per guardare  e respirare;

e mormorare piano: grazie. 

domenica 16 marzo 2008

 

Mi sono visto fingere

Essere ciò che non sono

E anche se non so ancora

chi io sia

so come non sono

 

la ricerca appassionata di verità

simile ad un sogno sognato

mi spinge e costringe

e sono solo

 

la solitudine dolce  accarezza

la schiena il collo

sono  comodo nei panni

di un punto interrogativo

 

scavo ignaro

sicuro nell’ incertezza sporca

che fluire abbandonandomi

corrisponda calore

più della logica

 

nel chiuso ermetismo

rifugio

 

nel segno volgare

caos

giovedì 6 marzo 2008

Cosa cambia davvero se tutto cambia ma in realtà non cambia niente?

Cosa vedrebbe uno degli operai morti a Porto Marghera – ma anche tutti gli altri di ogni dove- se tornasse oggi e osservasse l’esistente? Vedrebbe un mondo, compreso il suo piccolo mondo, enormemente mutato; eppure, per quanto riguarda quella che sarebbe la sua realtà traslata all’oggi, scoprirebbe le medesime condizioni esistenziali. Un’altra forma, una stessa sostanza.

Si pretenderebbe da lui quel che si pretendeva allora.

In un’epoca in cui si vuol sembrare qualcun altro e ci si adopera tutti per questo “voler essere”, non ci si è accorti che questo, questa volontà, è diventata un “voler avere”.

Poter avere, per poter essere.

Sarebbe davvero amaro per tutti, se tornasse.

Potrebbe avere l’impressione che la sua morte, è stata inutile.

 

                                   due undici zero uno

 

Sali sull’autobus arancione con dentro plastiche chiare  e sedili blue elettrico e altri colori fosforescenti.

Sedili sopra cui ti siedi, per sentir la differenza con quelli in plastica e ferro di un tempo.

Parte, silenzioso, scatti minimi del cambio automatico, riscaldamento o aria condizionata, a seconda della stagione.

Comfort moderni, pensi; ecco i parametri attraverso cui misurano il tenore di vita, il grado di civiltà, la potenziale contentezza del vivere.

Guardati attorno, cogli l’agio, l’allegria, la soddisfazione.

Da queste facce, da questi sguardi, da questa solitudine concreta, non si nota alcun progresso; semmai appare un benessere  formale, ostentato, mai vissuto, forse nemmeno fantasticato.

Man mano che l’autobus avanza si riempie di gente.

Ciascuno porta con sé quel che è, la sua storia, il suo carico di umanità e la sua difficoltà a mantenerla, che scappa dalle mani, si nasconde e si trasforma fino a diventare  assenza accettabile.

La gente si muove, massa compatta, come fanno gli atomi tra loro, seguendo il ballo delle curve, il ritmo delle frenate, la spinta delle accelerazioni

Appoggi la testa al vetro, senti la plastica frapporsi tra te e il fuori.

Senti voci, parole sussurrate; sono pensieri, scomposti, illogici, conservati come merce preziosa, nella memoria del mezzo.

Ricorda tutto quest’autobus, ti dici, e lo tiene dentro sé quasi che, senza, si affloscerebbe come fanno i palloncini quando esce l’aria.

Dal finestrino su cui sei appoggiato vedi scorrere la città.

Come lo schermo di un cinema, proietta il suo film. 

Come uno spettatore, prendi nota mentalmente del susseguirsi delle immagini.

Vedi pezzi che conosci alternati a immagini di una città che non è più la tua.

Mentre la tua testa ascolta le parole del finestrino, il ragazzo seduto sopra di te chiede ad una vecchia se voglia sedersi facendo un accenno di disponiblità, ma lei dice di no, che deve scendere alla prossima.

Nel suo volto, tra le rughe dure, ammonticchiate in orrizzontale o verticale, si disegnano linee contrastanti: gratificazione e sdegno, consapevolezza e rifiuto. Si vede che non riesce a percepirsi vecchia e al tempo stesso si rammarica di esserlo; perchè in fondo lo sa, e sa che  la fatica si vede e che la stanchezza si annusa.

Ed è però anche contenta ci siano ancora giovani gentili e disponibili.

Poi si avvicina alla portiera centrale che s’apre sbuffando e scende,  accennando un saluto che lui non vede, lenta, come alla moviola, come chi ha ossa e muscoli consumati dal percorso della vita.

Man mano che si avanza l’autobus si riempie ancora, fino a non consentire alcun movimento spontaneo.

Si sentono lingue e odori di ognidove.

Si vedono facce e colori di ogni provenienza.

Si vede il campionario di un mondo sempre più piccolo eppure sempre più distante.

Sono tutti vicini, costretti al contatto forzato.

Hanno tutti l’aria di chi sente di essere irrimediabilmente solo.

Di chi ha paura dell’altro, di chi teme che anche la più insignificante concessione alla relazione possa presagire alla catastrofe.

Sono la prova provata che questa città non è più la stessa, che la nostalgia serve solo a rifuggire il presente, che qui, ora, sopra quest’autobus arancione coi sedili blue fosforescente, il mondo è diverso da com’era quando gli autobus erano verdi, la polizia era verde, le fabbriche fumavano veleno, e traboccavano di ansie sopite da promesse vane, e la contrapposizione politica era un bluff così evidente, così strumentale, così tendente alla cieca fede, da indurre a pensare che quell’interpretazione trasudava quanto meno ingenuità.

Non si poteva, e forse non si può ancora, svelare la semplicità senza setirsi stupidi.

E tu eri giovane, forte, con una moglie bella e innamorata, due bambini riccioluti, e ti sentivi parte di un complesso sistema di regole, di diritti e doveri da pretendere e di cui rispondere, e venivi ogni giorno a lavorare, a faticare, pur senza grandi cause, forse perchè ti sembrava che in fondo a ognuno tocca un destino che è giusto assecondare.

E ti sentivi così anche quando hai iniziato a stare male, a sentire che la forza era solo un ricordo e la giovinezza un rimpianto.

Dicevi e pensavi che doveva andare così, che il destino è scritto e nessuno può leggerlo.

Arrivi in Via Righi, la via delle fabbriche.

Giungono ricordi. Ricordi di quando la tivù era ingenuità in bianco e nero, la polizia aveva pattuglie verdi, e le industrie di Porto Marghera ospitavano una popolazione immensa, inconsapevole, sacrificabile al progresso.

I tuoi occhi, allora, vedevano un mondo squilibrato, violento e cattivo, e però ti si spiegava che era la tua età a fartelo vedere così.

Poi anche tu sei diventato parte di quel sistema produttivo.

Gli operai come te erano controfigure viventi di un ideale, oggetti-soggetti buoni per propoagandare una fede parallela a quella del Dio propagandato da Roma.

Venite qui, vi accogliamo  noi, con noi sarete al sicuro e se anche morirete presto, prima della pensione, lo farete certi che il sacrificio abbia comunque una sua particolare bellezza, un suo originale senso, una sua santità felice.

Fedeli e infedeli; padroni e schiavi: parole dal sapore antico; ma bastava una parte da cui stare e un’altra contro cui combattere per non sentirsi soli.

Semplificazione terminologica che ancor oggi impera: è sufficiente operare soltanto qualche ritocco geografico e rimodernare qualche aggettivo sociologico: i nemici non mancano mai.

Ma la verità e la realtà non subiscono il tempo, non riconoscono parametri funzionali e definizioni antiche o moderne.

La verità e la realtà sono sempre là, a disposizione; aspettano che ne sentiamo l’odore, che ne percepiamo la presenza, che ne intuiamo la sostanza.

Oggi invece senti che questo ponte che unisce la città una e trina, da cui guardavi con innocenza attraverso i finestrini degli autobus verdi, e vivevi l’illusione meravigliosa di quelle luci che alla sera facevano sembrare le fabbriche una città immaginaria abitata da persone e storie; oggi quel ponnte sembra solo quel che è: un nastro d’asfalto sospeso sull’acqua.

E oggi sai che il tempo non esiste.

Che le coscienze oggi le lavorano in forma moderna, interattiva, subliminale.

E oggi, dopo quella sentenza che un giudice con un nome da animalista, che ha sancito la non colpa dei colpevoli, che ha cancellato vite e morti, sai.

Sai che non ci sarà mai memoria, e tu e loro, seppelliti dal profitto e celebrati dall’illusoria speranza di riscatto, sarete solo un inutile errore che si perpetua.

E un ricordo dimenticato.

domenica 2 marzo 2008

ritmo ritmo

AFORITMI

 

 

Mi rubano il tempo, penso

E io li lascio fare

Ritmo ritmo

 

Non sono più padrone di me, penso

Lo fossi mai stato

Ritmo ritmo

 

E intanto corro, penso

Proprio come fanno tutti loro

Ritmo ritmo

 

anch’io sono loro, penso

Adeguato abituato affidabile

Ritmo ritmo

 

Sto perdendo il senso, penso

Qualora l’avessi mai trovato

Ritmo rtimo

 

E intanto mi do da fare, penso

Per arrivare almeno alla sufficienza

Ritmo ritmo

 

So di non sapere, penso

E capisco di non capire, ma fingo

Ritmo ritmo

 

Mi nausea, non l’accetto, sono stufo, penso

Eppure non riesco ad uscirne

Ritmo ritmo

 

Mi fermo un attimo, penso

Sto nientendo, sto nullando: stop

Ritmo ritmo

 

Cerco una mia dimensione, penso

ma fin che cerco, non trovo

ritmo ritmo

 

vieni qui che ti annuso e mangio, penso

ma poi ti chiedo cosa vuoi da me?

Ritmo ritmo

 

Lasciami essere, penso

E invece dico lasciami stare

Ritmo ritmo

 

Ho iniziato a morire appena nato, penso

E non ho ancora iniziato a vivere

Ritmo ritmo

 

Quando sto bene mi scopro, penso

Quando sto male mi convinco a nascondere

Ritmo ritmo

 

Questa velocità m’inebria e stordisce, penso

Avvolgente e inutile com’è

Ritmo ritmo

 

Sono ad un punto morto, penso

Lo so perché ho conosciuti quelli vivi, e non sono così

Ritmo ritmo

 

Sono libero, penso

Libero dal desiderio di libertà

Ritmo ritmo

 

E stasera sono qui, penso

A celebrare il

Ritmo ritmo

 

 

sabato 1 marzo 2008

 

In un supermercato triste,

pagando alla cassa incontro

vecchi amici di famiglia.

Mi riconoscono  loro,

non sono fisionomista,

solo frullati di visi senza nome,

senza etichette e storie.

“Come sta il papà, bene?”

Ho quasi quarant’anni, penso;

per non saper cosa dire si parla

del poco che ci è comune.

“Bene, grazie”, rispondo. Sì,

anche mia figlia sta bene.

Mi dicono che ci hanno visti assieme,

mentre leggevo una poesia.

Una loro amica ne è appassionata.

Esco dal buco sotterraneo, le

scale mobili mi riportano lente alla luce.

Le borse piene pesano.

Cammino  lento, braccia allungate,

tese, una lieve curva, quasi una gobba,

disegnano il profilo del peso;

la spesa, i pensieri, si sommano,

aumentano la fatica.

Mi hanno chiesto del papà.

Una lacrima mesta, umile,

eppure spessa, si forma oltre

la soglia dell’occhio: scavalca

poi scivola giù pesante.

Nessuno chiede più di mamma;

sono solo da quella parte

senza lei, senza origine femminile.

Sono quel che sono ora;

grande, genitore anch’io.

Mi manca quell’appoggio,

quel conflitto, la sicurezza,

l’idea, la persona fisica.

Il 23 settembre l’anniversario.

Riposa mamma; io vivo: lo giuro.

domenica 24 febbraio 2008

Freddo zero gradi

 

 

Il freddo zero gradi invade ogni spazio, ingravidandolo di brividi.

Esco da casa ed è lì fuori che aspetta.

Sembra quasi avere una personalità e un carattere caldo, per controbilanciare le sue emanazioni gelide.

I miei occhi lacrimano col freddo, una specie di pianto protettivo.  Il viso pallido e le mani violacee sbucano da sciarpa e cappotto marrone spinato.

In mano le chiavi dell’auto che faticano a centrare la serratura, ubriache e rigide d’inverno.

Non porto il cappello perché altrimenti mi rovinerebbe i ricci messi a tacere dal gel.

Sì, perché sono ribelli e dispettosi; e allora, giusto per insegnar loro la disciplina, li incollo con quella gelatina trasparente e appiccicosa: “ qui comando io, sono io il padrone!”.

La mia casa è il mio corpo, sopra cui loro sono ospitati.

Per alcuni anni li ho portati lunghi; anzi luuunghi, luunghissssimi. M’arrivavano fino a oltre metà schiena da bagnati; da asciutti, meno; molle retrattili che si tirano e ritirano, boccoli di spago nero sottile arrotolato su di sé.

Un tempo, l’altra volta che li avevo tenuti lunghi- da diciottenne ribelle con l’urlo sulla pelle, l’ormone scatenato, il pugno alzato, il cannolo arrotolato pendente dalle labbra, le endovenose in agguato nelle piazze, il canto no future nelle orecchie, le birre per ruttare sul mondo bastardo- avevo dei boccoloni che mi si adagiavano sulle spalle per poi cadere giù in picchiata lungo schiena o petto; avevo provato per curiosità ad aprire quel grumo compatto simile ad una frusta; ebbene, dentro, un fitto strato colloso con animali e insetti di ogni genere: sembrava un ambiente boscoso, una riserva selvatica.

 

E proprio oggi, in questo zero centigrado, punto d’equilibrio tra il più e il meno, ho svuotato lo zaino che di solito adopero e ho messo tutte le mie cose dentro la borsa di cuoio che usavo proprio in quegli anni caldi di sangue fertile e rabbia ingenua.

Al suo interno, tante firme.

Soprattutto di ragazze, amiche e fidanzate dell’epoca.

Uno sforzo lieve per ricordare.

Ricordo quasi tutte e tutti; l’aspetto, l’eloquio, il ruolo all’interno del gruppo.

Erano tempi capelloni, e si parlava, spesso, di cosa fare, dove andare, come affrontare quel presente dal sapore di nulla. Col lusso di chi ha così tanto tempo da concedersi la noia.

Ricordo in particolare una di loro; i suoi baci caldi, lenti, senza fretta: perché dove si dovrebbe andare visto che stiam facendo la miglior cosa possibile al mondo?

E una saggezza che nemmeno mi sfiorava; sta lontano da quella roba, da quella gente; vieni qui tra le mie braccia, dentro la mia bocca, a cuccia tra i seni, tra le mie gambe umide; vieni dentro che ti scaldo e proteggo io, corazza d’amore.

E poi stringimi, che ci nascondiamo; che se ci trovano, troveranno due persone in una: forti ben più del doppio di ognuno di noi, e voi, che non capite e che mai capirete la verità di questo dolce bisogno.

E ricordo di averla perduta perché non sapevo ascoltare altro che le urgenze della mia età. 

E c’era anche un ragazzo là in mezzo che se n’è andato, da solo, dentro un’auto, in un posto isolato, con il cuore fermo, la pelle bianca, le labbra e le unghie blu, freddo come il gelo delle domande che scaldava con le risposte sbagliate. L’han trovato dopo una telefonata anonima: c’era qualcuno con lui, ma niente nomi; solo rimpianto e rammarico e un segreto che gli peserà per sempre, credo. Come quando la vigliaccheria sfiora il buon senso

E poi ce n’è un’altra che stava assieme ad un ragazzo che usava la polvere maledetta anch’egli.

E girava con un’insulina in borsa, pronta ad immolarsi per lui; disposta a capire quei perché– ce ne sarà stato almeno uno-  ch’egli non sapeva tradurre in parole, ma solo in fatti brutali che poi pagava e pativa col tremore e la tristezza dello sconfitto.

E poi gli altri, che erano dentro la borsa, ma solo da comparse, poi scomparse.

E in questa mattina zero gradi centigradi, con queste chiavi in mano che faticano ad entrare nella serratura intasata di freddo, circondato da questo profumo che non puzza ancora, soltanto, del fetore di città, apro la portiera ed entro.

 

Mi stendo sullo schienale dopo aver appoggiato la borsa.

La guardo, aspettando che s’esprima.

Voci invadono l’abitacolo.

Escono da figure che scaturiscono da firme.

Mi guardano.

Io le guardo.

Ci sorridiamo con facce d’epoca, chissefrega dei vent’anni e più che son passati.

E come va?

Va bene; va meglio soprattutto da quando mi faccio le domande giuste e non agisco solo risposte rabbiose.

Sì, ci sono ancora i colori nelle fantasie, e ci sono tante più verità e molte meno bugie.

E tutto è più delicato e facile.

E quel tipo di paura viva è sparita, lasciando il posto a inutili timori adulti, e alibi circostanziati.

Anche se ormai non ho più tempo .

Anche se però mi mancate.

E questa mia faccia – e mentre lo dico chiedo conferma allo specchietto retrovisore- è ancora giovane e tutto sommato bella.

Poi allungo una mano e accarezzo quei visi, che sorridono al tocco.

E guardo lei.

Avevi ragione, già da allora, ma dovevo toccare quello schifo con queste mie mani e sporcarle.

E poi guardo lui; non dico niente.

Qualsiasi parola sarebbe troppo e troppo poco.

E sorrido commosso.

E lo abbraccio e stringo fraterno.

E tutti gli altri, vestiti sgraziati come allora, li saluto con la mano.

In macchina il riscaldamento sta facendo energicamente il suo dovere.

Guardo l’ora.

Li guardo con lo sguardo gentile e chiedo loro di tornarsene in borsa.

È tardi e devo andare.

Anche se non è mai troppo tardi.

Anche se ci hanno sempre detto e inculcato il contrario.

Non è mai troppo tardi.

E ad ogni fine coincide un nuovo inizio.

Fuori è zero gradi.

Dentro si sta bene.

Vado.

 

 

sabato 16 febbraio 2008


Davanti al mare

 

 

Davanti al mare, estate, tardo pomeriggio.

Stai in piedi, guardi e ascolti.

Guardi e vedi l’acqua, madre primordiale, fluida necessità.

Guardi e vedi l’orizzonte che unisce in una sottile linea gli elementi che apparentemente sembrano separati.

Senti sulla pelle la forza del calore del sole, pallone giallo infuocato che dà luce.

Odori la salsedine che accarezza l’olfatto e scende in gola solleticando il gusto.

E senti l’arrivo e il ritorno dell’acqua che si fa schiuma e torna subito liquida.

Sembra tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo.

Stai così un minuto, cinque, dieci.

Poi decidi di sederti.

Rilassi le spalle, che ti accorgi essere tese.

Siedi comodo, sciogliendo il più possibile i muscoli che sono tesi tesi, tirati come fili dell’alta tensione.

Seduto così, t’accorgi di non esserti messo comodo prima perché pensavi agli altri; a cosa avrebbero potuto pensare di te.

Di quest’uomo-ragazzo che viene in spiaggia con la figlia e che legge, sta spesso in silenzio, in disparte, ha un’aria autunnale e non socializza come gli altri.

Che ha perduto persone importanti che non vivono più.

“che stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?” ti sembra di sentire le parole dei loro pensieri.

“sto nullando, sto nientendo”, risponderesti loro.

“e dovreste provarci, qualche volta”, aggiungeresti.

E diresti: “sapeste quanto è ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente eppure mesta, disinteressata all’esibizione, disinteressata all’ambizione”; lo diresti, se avessi voglia di parlare a quegli sguardi nascosti dietro l’indifferenza da professionisti.

E invece taci.

E ristori la mente, quieti i pensieri, smussi gli angoli, tradisci la fretta, aborrisci l’inutilità, sposi e baci e lecchi l’essenza.


Lo sguardo e l’udito seguono il ritmo regolare delle piccole onde che arrivano alla carica per poi ritirarsi subito.

Vengono e vanno; arrivano e partono; giungono e lasciano.

Onde discrete, leggere che s’arricciano sulla sabbia.

Quando vai a fare il bagno, nuoti per sfiancarti e raggiunto il largo, lontano dal chiasso, ti metti a pancia in su. Stai così sperando di ritrovare quella sensazione talvolta ritrovata, più spesso perduta, che ti fa tornare feto che nuota protetto dal corpo della madre guerriera di dolcezza. Là, lo sai, lo senti, la radice del rimpianto che da sempre ti tormenta e sempre lo farà.

Avevi la perfezione, l’hai persa per sempre, corrotta dalla venuta al mondo.

E allora immergi le orecchie sotto l’acqua e lasci che l’ottundimento dei rumori ti allontani dal clamore. Chiudi gli occhi e ti unisci con un atto puro a quella mancanza, a quel ventre generoso, a quel silenzio, a quell’intimità perfetta.

Torni a lei, che è ricordo in quanto non più presenza, che è metafisica per carenza di fisico, di spazio in cui rifugiarsi.

Il solo modo per sopperire  all’assenza di tua madre è ritornare là dentro dove non c’era bisogno di parole o di gesti, ma soltanto della presenza.

Galleggi nella posizione del morto, e rinasci.


Distogli i sensi dalle onde.

Torni seduto sulla battigia.

Poi t’alzi.

Lo fai quando t’accorgi che quella gioia sta per diventare posa compiaciuta.

Quando l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire l’evidenza impalpabile sta per diventare orgoglio.

L’ego non dà tregua.

E ti riporta al sonno delle abitudini.

Sei stato bene con te.

Quando ti sei dimenticato di te, e sei stato.

Ritorni con calma verso un gruppo di conoscenti e chiedi se han bisogno d’aiuto, per riportare alla base, le molte cose che avevano trascinato in riva al mare.

Camminando ti volti per un ultimo sguardo verso il mare.

Ma vedi solo sabbia e acqua.

Di nuovo, come spesso purtroppo accade, i tuoi occhi guardano senza saper vedere.

 

 

 

sabato 9 febbraio 2008

post carnevale, follia ufficiosa

 

Cammino, fluttuo, per strada.

La direzione è la fuga.

Fuga dal niente che riempie tutto.

Fuga dal tutto che non lascia più spazio.

 

Mercoledì.

È passato carnevale.

Ieri era la follia conclamata, oggi quella ufficiosa.

Per terra tracce di festa: coriandoli, stelle filanti, vomito.

Venezia è morta da tanto, e vive solo grazie alla bellezza che contiene in sé, a cui non si può non perdonare tutto. Anche la coazione ad essere venduta.

Suoi unici abitanti, vecchi piegati dall’umidità, ricchi mercenari, ignoranti inebetiti dagli spritz, poca gioventù soggiogata dall’isolamento.

Uno sguardo attento a vedere, senza pensieri che ottundono la semplice verità, e confondono ciò che è con ciò che io credo che sia.

La strada straripa di donne e uomini ridotti allo status di turista, sviliti dalla sagacia  immorale di commercianti di souvenir della vuota nostalgia meretrice.

Maschere, vetri, scarpe, bottiglierie, pizzerie, occhialerie, alberghi, fast-food, cucina tradizionale, cinese, araba.

Cammino zigzagando tra trolley grandi come tir e zaini misura camper.

Rido e canto canzoni finte che fingo di ascoltare da cuffiette che non emettono alcun suono ma che limitano l’invadenza di quel parlare idiomi incomprensibili dai toni stanchi.

Cinesi avanzano a grumi e si distinguono per questo rimanere compatti, e per i vestiti di chi è disoccupato alla fantasia.

Giapponesi a piccoli gruppi, da due a cinque, camminano con borsette, passo, pettinature e vestiti da sfilata. Si scattano foto con espressioni standard: sembrano cartoni animati da bambini che lanciano urletti isterici e sostituiscono in senso onomatopeico il nulla del loro non ragionare. Non guardano mai negli occhi.

Americani si distinguono tra obesi e muscolosi iper tonici. Arrotondano le parole con dei versi che sembrano scivolare sulla loro stessa parodia. Hanno bei denti, sguardi felici di chi antepone l’ottimismo semplice alla pedante complessità. Sono evidentemente quel che sembrano e il mondo li guarda sconcertati.

Bengalesi pettinati con righe in parte iperboliche lasciano scie speziate.

Inglesi pallidi portano con sé una nobiltà decadente, umiliata dai più giovani che non nascondono una disperazione penetrata fin dentro le ossa. Sanno di pioggia, cielo grigio, case marrone a perdita d’occhio, socialità costrette dentro uffici o pub, e birra a gonfiare il ventre.

Tedeschi a misura di famiglia che non si vergognano di niente. Purché sia efficiente e affidabile.

Francesi che sembrano italiani con l’erre moscia con la stronzaggine intrinseca di chi passeggia in centro.

Spagnoli che sembrano italiani che se ne fregano di essere sempre e comunque vestiti alla moda e parlano ancora ad alta voce e ridono.

Olandesi biondi e impermeabili alle emozioni che leggono guide turistiche dalle loro altezze siderali che compensano il fatto che vengono dai paesi bassi.

Ai lati neri robusti vendono borse finte. Parlano gutturale, ridono sempre tra loro e uccidono afflati di simpatia pur di vendere qualcosa.

Altri vendono altro.

Zingari rumeni mendicano compassione ai sensi di colpa.

Veneziani vendono ritratti stereotipati di angoli cittadini inesistenti commissionati in Cina.

 

Io sono il mondo, anche.

Il primo, il secondo, il terzo e finanche il quarto.

Contengo tutti i mondi, in scala gerarchica.

Mondi che coesistono detestandosi.

 

Tutti hanno le stesse scarpe da ginnastica. Alcuni, scarponi neri. Altri imitazioni di scarpe. Altri i sandali.

Maglie e camicie sudate.

M’han rotto i coglioni, penso.

 

Mi metto ad un lato della strada, tra un negozio di scarpe e una libreria da turisti.

Fingo di ascoltare musica, mi metto a ballare breack-dance e poi faccio il robotino che si muove a scatti.

Poi fingo di raccontarmi e ascoltare una barzelletta e rido a voce altissima, il tutto col silenzio del mimo.

Poi mi stendo fingendo di essere colpito da una spada invisibile e accuso il colpo rinclando vistosamente.

Poi mi sposto in un campo attiguo, prendo posizione dove ho spazio a disposizione e comincio a roteare su me stesso; prima piano poi sempre più veloce sino a non distinguere più l’immobilità e l’imponenza dei palazzi che mi circondano.

Roteo danzando come i dervisci.

Dopo qualche minuto mi fermo.

La testa gira, mi lascio cadere morbidamente a terra.

 

Mi si avvicina una bella e giovane bionda vestita con una gonna lunga e una camicia leggera.

Mi appoggia le labbra sulle labbra, leggera, senza impegno.

Mi guarda con gli occhi azzurri e chiari e ingenui di chi ha non più di venticinque anni.

Mi sussurra ad un orecchio: “ I understand you”, e se ne va.

 

Mi rialzo.

Mi spazzolo i vestiti senza polvere.

Vedo un paio di decine di occhi che mi fissano incuriositi.

Sulla borsa appoggiata a terra, qualche € di caritatevole predisposizione all’arte che non ho manifestato.

La prendo, metto in tasca i soldi e vado salutando con un gesto della mano.

Squilla il telefonino.

“sì, pronto”

“dottor Persepolis, sono Giaquinto. Sto male, ho bisogno di vederla. La prego, posso venire oggi?”

“Giaquinto, sono ancora per strada. Appena arrivo in studio controllo con Anna gli appuntamenti, e se ho un buco la ricevo.

Se non è oggi, sarà per domani. Ha preso gli ansiolitici che le avevo prescritto? Sì, bene. Ci sentiamo più tardi”

“ Anna, sono io, sto arrivando. Se qualcuno telefona, prenda appunti che poi sistemiamo gli impegni. Sì, a tra poco”.

 

 

Vorrei cambiare il solito.

Divertirmi col sole.

Rinfrescarmi col vento.

Vedere con occhi di bambino.

 

domenica 3 febbraio 2008

racconto disgustoso?

lo scorso fine settimana sono stato al rifugio "alpe madre" sul monte grappa per un reading.
io e marco abbiamo letto tre brevi racconti ciascuno accompagnati alla chitarra da umberto.
propongo di seguito il primo dei miei tre racconti. 
lo faccio perché ha provocato in una delle spettatrici presenti, reazioni molto forti: ha scritto una mail ai proprietari dicendo che il racconto le aveva causato disgusto e che le aveva rovinato il pranzo. ha poi aggiunto che non voleva dire che è un argomento da censurare, ma che comunque la gita in montagna e il buon pranzo erano irrimediabilmente compromessi dal mio scritto.
proponeva, insomma, che si dovrebbe avvisare i clienti degli argomenti trattati affinché questi possano scegliere se aderire o meno. 
trovo la richiesta ragionevole.
e comunque credo che questo breve racconto non possa risultare talmente disgustoso da rovinare un pranzo; magari brutto, inutile, ma non indigesto.
eccolo.......
 

 (per) piacere

 

Quando ero piccola, ero molto curiosa e timida. Conservo di allora ricordi vividi, speciali; protezione  e calore erano sensazioni frequenti, che s’intrufolavano in ogni cellula del mio corpo,  su cui mi abbandonavo.

Mi nascondevo dietro alle gonne della mamma per spiare, invisibile, le persone.

Non potevo distogliere lo sguardo da niente, non riuscivo a non pensare, commentare,  classificare.

La più bella donna ch’io ricordi,  a tutt’oggi insuperata, era  bruna, un po’ tonda;  di quelle  piene, prosperose, rosse sulle guance, il seno gonfio; sembrava un frutto da succhiare.

Aveva  capelli ricci, non molto lunghi,  un volto  vivo  e intelligente che io, a sette anni, fantasticavo potesse appartenere alla Madonna.

Una Madonna accessibile.

Era l’unica, e lo è soprattutto adesso, ad esprimere  un’unicità, un primato di autenticità incontestabile, di nobiltà e grazia.

Per questo credo caparbiamente che la bellezza non possa avere la sua taglia; le sue curve abbondanti solleticavano invitanti pensieri, proibiti ma legittimi, che esprimevano le virtù che solo un pezzo unico possiede.

 

Barbie aveva gambe lunghe, un seno teso e abbondante e la sua pelle non conosceva ingiustizie. Una pelle di plastica, perfetta, immodificabile anche se finta.

Lucia a sedici anni si è rifatta il seno ed ora, d’estate, esibisce, come fosse su  una passerella, due rotondità  alla cui estremità svettano sfacciati due capezzoli che sono tanto sconci quanto irresistibili.

Una volta ho visto un documentario in cui mostravano attrici del mondo del porno  che prima di esibirsi si mettevano il ghiaccio proprio lì.

Non credo che Lucia, a scuola e in piazza faccia altrettanto, ma nel dubbio preferisco proprio non vederla.

Ormai so che i ragazzi, quasi senza accorgersene, guardano sempre lì. Come se lei fosse quello, quei capezzoli a punta: una promessa.

 

 

………“Non posso credere che dei corpi finti, dei falsi sorrisi siano diventati un punto di riferimento; la maggior parte delle mie amiche le conosce per nome: è l’era delle letterine e soubrettes varie. Non ci vorrei credere, ma la realtà in cui viviamo è questa e sembra si siano ribaltati i ruoli: la vita è lo specchio della televisione e non più, come sento dire spesso, il contrario”….

Mio padre fa sempre sti discorsi e non vuole mangiare con la tv accesa.

Dice sempre che ai suoi tempi i divi e le dive erano, appunto, paragonabili a divinità.

Paul Newman, Marlon Brando, Sofia Loren; rappresentavano assieme ad un’altra dozzina di nomi una sorta di mito inarrivabile.

Erano creature che vivevano nell’Olimpo, o meglio, nelle colline di Beverly Hills e rappresentavano l’universalità  dei canoni di bellezza dell’epoca; più o meno dice così e forse ha ragione.

Io vorrei dirgli di venire a scuola o in piazza.

Di ascoltare, di guardare.

E’ una corsa in cui si perde comunque; c’è sempre qualcuno di più bello, più figo, più ricco, più magro.

Maschi o femmine, non fa differenza.

E se ci sono quelli che sono e hanno un po’ di più, ci sono anche quelli che sono e hanno di meno: io.

 

Mamma mi capisce, sa che non faccio apposta.

Mamma sa che sto consumando  corpo e  ragione, e che quest’ossessione ha la dignità di una malattia.

Mamma sa che non mi invento sempre tutto.

Mamma piange con me, nella mia camera e in ospedale. Quando mi lava in vasca mi accarezza dolcemente, per paura di rompermi, dice.

Anche dai dottori mi sento rispettata.

Purtroppo questo non significa che riescano a comprendere e condividere fino in fondo il mio desiderio di non avere imperfezioni, carni flaccide, seni cadenti.

Loro non possono essere dietro ai miei occhi quando mi specchio, e vedere quel che io vedo.

 

Quando guardo le altre ragazze riesco ad accettare e capire anche le più brutte, le più ridicole.

Il problema lo sento su di me; sul mio corpo, sul mio cuore.

E quando mangio reagisco in modo espulsivo.

Rigetto.

 

Certe volte riesco a dimenticare come sono e viaggio con i desideri e le voglie. Mi vedo lontana da qui, con gente come me.

Certe volte non riesco a sentire alcun interesse e mi abbandono a questa malinconia. Faccio fatica e non capisco: qual è il segreto che ho dentro e che devo affrontare?

La gente mi fa paura e non mi sento mai all’altezza. Mi dicono sempre che quasi tutti si sentono così e che questo è un problema superabile.

Mi dicono che se continuo così rischio molto.

Il mio fisico indebolito me lo dovrebbe suggerire ma la mia testa comanda al corpo di espellere, di non accettare niente.

Vorrei sparire per diventare ricordo.

Per questo, da quando ho raggiunto i pochi chili che peso, mi nutrono con le flebo.

Ho fatto un patto con me stessa: capirò  dal momento stesso in cui sentirò che anche loro accettano e capiscono me.

Ne ho un bisogno da morire.