Cosa cambia davvero se tutto cambia ma in realtà non cambia niente?
Cosa vedrebbe uno degli operai morti a Porto Marghera – ma anche tutti gli altri di ogni dove- se tornasse oggi e osservasse l’esistente? Vedrebbe un mondo, compreso il suo piccolo mondo, enormemente mutato; eppure, per quanto riguarda quella che sarebbe la sua realtà traslata all’oggi, scoprirebbe le medesime condizioni esistenziali. Un’altra forma, una stessa sostanza.
Si pretenderebbe da lui quel che si pretendeva allora.
In un’epoca in cui si vuol sembrare qualcun altro e ci si adopera tutti per questo “voler essere”, non ci si è accorti che questo, questa volontà, è diventata un “voler avere”.
Poter avere, per poter essere.
Sarebbe davvero amaro per tutti, se tornasse.
Potrebbe avere l’impressione che la sua morte, è stata inutile.
due undici zero uno
Sali sull’autobus arancione con dentro plastiche chiare e sedili blue elettrico e altri colori fosforescenti.
Sedili sopra cui ti siedi, per sentir la differenza con quelli in plastica e ferro di un tempo.
Parte, silenzioso, scatti minimi del cambio automatico, riscaldamento o aria condizionata, a seconda della stagione.
Comfort moderni, pensi; ecco i parametri attraverso cui misurano il tenore di vita, il grado di civiltà, la potenziale contentezza del vivere.
Guardati attorno, cogli l’agio, l’allegria, la soddisfazione.
Da queste facce, da questi sguardi, da questa solitudine concreta, non si nota alcun progresso; semmai appare un benessere formale, ostentato, mai vissuto, forse nemmeno fantasticato.
Man mano che l’autobus avanza si riempie di gente.
Ciascuno porta con sé quel che è, la sua storia, il suo carico di umanità e la sua difficoltà a mantenerla, che scappa dalle mani, si nasconde e si trasforma fino a diventare assenza accettabile.
La gente si muove, massa compatta, come fanno gli atomi tra loro, seguendo il ballo delle curve, il ritmo delle frenate, la spinta delle accelerazioni
Appoggi la testa al vetro, senti la plastica frapporsi tra te e il fuori.
Senti voci, parole sussurrate; sono pensieri, scomposti, illogici, conservati come merce preziosa, nella memoria del mezzo.
Ricorda tutto quest’autobus, ti dici, e lo tiene dentro sé quasi che, senza, si affloscerebbe come fanno i palloncini quando esce l’aria.
Dal finestrino su cui sei appoggiato vedi scorrere la città.
Come lo schermo di un cinema, proietta il suo film.
Come uno spettatore, prendi nota mentalmente del susseguirsi delle immagini.
Vedi pezzi che conosci alternati a immagini di una città che non è più la tua.
Mentre la tua testa ascolta le parole del finestrino, il ragazzo seduto sopra di te chiede ad una vecchia se voglia sedersi facendo un accenno di disponiblità, ma lei dice di no, che deve scendere alla prossima.
Nel suo volto, tra le rughe dure, ammonticchiate in orrizzontale o verticale, si disegnano linee contrastanti: gratificazione e sdegno, consapevolezza e rifiuto. Si vede che non riesce a percepirsi vecchia e al tempo stesso si rammarica di esserlo; perchè in fondo lo sa, e sa che la fatica si vede e che la stanchezza si annusa.
Ed è però anche contenta ci siano ancora giovani gentili e disponibili.
Poi si avvicina alla portiera centrale che s’apre sbuffando e scende, accennando un saluto che lui non vede, lenta, come alla moviola, come chi ha ossa e muscoli consumati dal percorso della vita.
Man mano che si avanza l’autobus si riempie ancora, fino a non consentire alcun movimento spontaneo.
Si sentono lingue e odori di ognidove.
Si vedono facce e colori di ogni provenienza.
Si vede il campionario di un mondo sempre più piccolo eppure sempre più distante.
Sono tutti vicini, costretti al contatto forzato.
Hanno tutti l’aria di chi sente di essere irrimediabilmente solo.
Di chi ha paura dell’altro, di chi teme che anche la più insignificante concessione alla relazione possa presagire alla catastrofe.
Sono la prova provata che questa città non è più la stessa, che la nostalgia serve solo a rifuggire il presente, che qui, ora, sopra quest’autobus arancione coi sedili blue fosforescente, il mondo è diverso da com’era quando gli autobus erano verdi, la polizia era verde, le fabbriche fumavano veleno, e traboccavano di ansie sopite da promesse vane, e la contrapposizione politica era un bluff così evidente, così strumentale, così tendente alla cieca fede, da indurre a pensare che quell’interpretazione trasudava quanto meno ingenuità.
Non si poteva, e forse non si può ancora, svelare la semplicità senza setirsi stupidi.
E tu eri giovane, forte, con una moglie bella e innamorata, due bambini riccioluti, e ti sentivi parte di un complesso sistema di regole, di diritti e doveri da pretendere e di cui rispondere, e venivi ogni giorno a lavorare, a faticare, pur senza grandi cause, forse perchè ti sembrava che in fondo a ognuno tocca un destino che è giusto assecondare.
E ti sentivi così anche quando hai iniziato a stare male, a sentire che la forza era solo un ricordo e la giovinezza un rimpianto.
Dicevi e pensavi che doveva andare così, che il destino è scritto e nessuno può leggerlo.
Arrivi in Via Righi, la via delle fabbriche.
Giungono ricordi. Ricordi di quando la tivù era ingenuità in bianco e nero, la polizia aveva pattuglie verdi, e le industrie di Porto Marghera ospitavano una popolazione immensa, inconsapevole, sacrificabile al progresso.
I tuoi occhi, allora, vedevano un mondo squilibrato, violento e cattivo, e però ti si spiegava che era la tua età a fartelo vedere così.
Poi anche tu sei diventato parte di quel sistema produttivo.
Gli operai come te erano controfigure viventi di un ideale, oggetti-soggetti buoni per propoagandare una fede parallela a quella del Dio propagandato da Roma.
Venite qui, vi accogliamo noi, con noi sarete al sicuro e se anche morirete presto, prima della pensione, lo farete certi che il sacrificio abbia comunque una sua particolare bellezza, un suo originale senso, una sua santità felice.
Fedeli e infedeli; padroni e schiavi: parole dal sapore antico; ma bastava una parte da cui stare e un’altra contro cui combattere per non sentirsi soli.
Semplificazione terminologica che ancor oggi impera: è sufficiente operare soltanto qualche ritocco geografico e rimodernare qualche aggettivo sociologico: i nemici non mancano mai.
Ma la verità e la realtà non subiscono il tempo, non riconoscono parametri funzionali e definizioni antiche o moderne.
La verità e la realtà sono sempre là, a disposizione; aspettano che ne sentiamo l’odore, che ne percepiamo la presenza, che ne intuiamo la sostanza.
Oggi invece senti che questo ponte che unisce la città una e trina, da cui guardavi con innocenza attraverso i finestrini degli autobus verdi, e vivevi l’illusione meravigliosa di quelle luci che alla sera facevano sembrare le fabbriche una città immaginaria abitata da persone e storie; oggi quel ponnte sembra solo quel che è: un nastro d’asfalto sospeso sull’acqua.
E oggi sai che il tempo non esiste.
Che le coscienze oggi le lavorano in forma moderna, interattiva, subliminale.
E oggi, dopo quella sentenza che un giudice con un nome da animalista, che ha sancito la non colpa dei colpevoli, che ha cancellato vite e morti, sai.
Sai che non ci sarà mai memoria, e tu e loro, seppelliti dal profitto e celebrati dall’illusoria speranza di riscatto, sarete solo un inutile errore che si perpetua.
E un ricordo dimenticato.